Ogni progetto nasce dall’ascolto. Prima di ogni gesto, il luogo chiede di essere osservato nella sua evoluzione spontanea: come si muovono le specie, quali sopravvivono al vento, come il suolo reagisce alla pioggia, quale equilibrio nasce tra luce e ombra.
L’osservazione non è un momento preliminare ma una pratica continua, un dialogo silenzioso tra l’intenzione e ciò che accade naturalmente.
In questo tempo sospeso, il campo rivela la propria grammatica interna — la struttura vegetale, i ritmi, le resistenze — e solo allora si può iniziare a intervenire, non per imporre una forma, ma per accompagnare un processo in atto.
Questo principio, vicino al metodo dei New Perennials e alla filosofia di Piet Oudolf, riconosce che il giardino è un organismo dinamico, un paesaggio in divenire.
L’intervento diventa così un atto di cura e coesistenza: non si progetta contro la natura, ma con essa, accettandone il carattere mutevole e imperfetto come parte della sua bellezza.

Imparare dagli errori
Il primo anno che ho preso in gestione il campo ero entusiasta e, anche se avevo la mia esperienza tecnica alle spalle, razionalmente sapevo che non era il momento giusto per tuffarmi subito nella parte pratica: il tempo dell’osservazione era quello che volevo rispettare. Eppure, ci sono cascata.
Conoscevo le specie autoctone che avrei voluto inserire per avviare il processo di miglioramento dell’habitat e, nei mesi successivi, ho piantato circa un centinaio di piante tra alberi e arbusti. Quell’anno è stato — come ho scoperto dopo — l’anno con più siccità degli ultimi dieci. Ho perso molte piante. È stata una lezione dura ma chiarificatrice: il progetto non è fatto solo di idee giuste sulla carta, ma di risposte concrete del sito alle condizioni reali.

Nonostante le perdite, qualcosa di inatteso accadde: alcuni fiori selvatici e le prime pioniere che guardavo crescere, in alcune aree del campo mi avevano dato soddisfazioni a primavera, mostrandomi capacità di adattamento e dinamiche che non avevo immaginato. Incoraggiata da questo, quell’autunno ho piantato centinaia di bulbi adatti a naturalizzarsi, con l’idea di aggiungere stagionalità e ricchezza fiorita al paesaggio. Purtroppo, la primavera successiva è arrivata un’altra sorpresa meno poetica: i cinghiali. Che in genere non frequentano il campo, ma gran parte dei bulbi che avevo piantato erano per loro una vera leccornia e sono stati attirati, rivoltando letteralmente il terreno in gran parte delle zone con i “nuovi” bulbi. Praticamente ho servito un piatto costosissimo per cinghiali, e gran parte sono stati divorati, salvo quelli che, per loro natura, risultavano “sgraditi”.
Almeno oggi sappiamo quali bulbi reggono al passaggio della fauna locale; e questa conoscenza è entrata nel progetto come un dato prezioso, costato caro, ma non una sconfitta.
Cosa ho imparato (e cosa suggerisco)
- L’osservazione paga più dell’urgenza. Ogni intervento affrettato porta con sé rischi: il sito parla, e spesso dice cose che il nostro progetto non aveva previsto.
- Gli errori sono dati acquisiti. Le piante perse e i bulbi divorati sono diventati informazioni pratiche: quali specie reggono la siccità, quali sono appetibili per la fauna, dove serve una protezione temporanea.
- Progettare con flessibilità. Un progetto basato sull’osservazione deve prevedere ridondanza, piani di adattamento e un orizzonte temporale più ampio: si coltiva un processo, non solo un risultato immediato.
- Coinvolgere la fauna nel progetto. Capire il comportamento degli animali locali è parte integrante del design: non sempre saranno “nemici” — a volte diventano indicatori ecologici che guidano le scelte.
Il vero progetto comincia quando smettuamo di voler controllare tutto e iniziamo a leggere il paesaggio. Osservare non è rinunciare: è accumulare conoscenza viva, che rende ogni intervento più sensato e duraturo. Per me — e per il progetto L’Istrice — questo principio resta la bussola: prima ascoltare, poi agire; e quando si agisce, farlo con umiltà e spirito di adattamento.
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