Quando il margine diventa maestro
Nel primo principio abbiamo riconosciuto l’osservazione come atto fondativo: l’ascolto del luogo, la sospensione dell’intervento, la pazienza come strumento di conoscenza.
Questo secondo principio nasce da quel silenzio osservativo e si traduce in una forma attiva di cura: restaurare senza cancellare, accompagnare senza dominare.
Due prospettive, il restauro ecologico e il Giardino del Terzo Paesaggio, si incontrano per costruire un modo diverso di abitare e coltivare la terra: un modo che non teme il disordine e che riconosce valore ai margini, alle aree lasciate libere, agli spazi che resistono alla pianificazione.
Restauro ecologico: l’arte del ripristino vitale
Il restauro ecologico – conosciuto anche come Ecological Restoration o Wild Gardening – non è una ricostruzione, ma un atto di assistenza. È il tentativo di aiutare un ecosistema a ritrovare la propria funzionalità dopo un periodo di alterazione o degrado.
Si basa sull’osservazione scientifica del suolo, delle specie, delle relazioni idriche e faunistiche, e sull’idea che la biodiversità sia la vera infrastruttura della resilienza.
Ripristinare non significa tornare indietro, ma ristabilire le condizioni perché la vita torni a organizzarsi da sé.
È un processo lungo, fatto di tentativi, errori, adattamenti.
Nel campo dell’Istrice, ad esempio, le prime prove di piantumazione e le perdite dovute alla siccità o ai cinghiali hanno rivelato le reali forze in gioco, trasformando ogni errore in una mappa di conoscenza.



Il Terzo Paesaggio: la lezione del margine
Il Terzo Paesaggio, concetto introdotto da Gilles Clément, è il luogo della libertà vegetale: gli spazi abbandonati, i bordi dei campi, i fossi, le aree di risulta dove la natura, lasciata a sé stessa, inventa nuove forme di equilibrio. Clément ci invita a considerare questi luoghi non come spazi trascurati, ma come depositi viventi di biodiversità.
Essi rappresentano la parte del paesaggio che sfugge al controllo umano, quella che conserva — silenziosamente — semi, adattamenti e forme di resistenza.
Cos’è il Terzo Paesaggio:
Il Terzo Paesaggio (Gilles Clément) indica quegli «spazi lasciati dall’uomo», le marginalità, i bordi, i luoghi di transizione che “NON SONO” non rientrano nel paesaggio agricolo, urbano o protetto, non sono boschetti, non sono prati, non sono campi.
Sono depositari di biodiversità inattesa: rifugi e laboratori evolutivi. Clément propone di considerarli come parte del giardino planetario — luoghi da leggere, conservare e talvolta integrare con interventi leggeri, salvaguardandone la dinamica spontanea.
Includere il Terzo Paesaggio nel progetto significa accettare l’imprevedibile come parte del disegno, lasciare zone di libertà, favorire l’autoselezione naturale delle specie e riconoscere valore anche a ciò che appare disordinato.



Due visioni, un unico principio: restaurare accompagnando
Unendo restauro ecologico e Terzo Paesaggio nasce un approccio operativo e poetico insieme: non si tratta di “aggiustare” il campo, ma di partecipare ai suoi processi evolutivi.
In pratica, questo si traduce in alcuni gesti semplici e costanti:
- Mappare le dinamiche spontanee: registrare le aree di maggiore vitalità, le presenze faunistiche, le colonizzazioni naturali.
- Proteggere le pioniere: le prime specie che arrivano spontaneamente indicano la direzione ecologica del luogo.
- Intervenire con misura: piantare o potare solo quando serve ristabilire un equilibrio principalmente funzionale.
- Conservare il margine: ogni zona lasciata libera diventa serbatoio di biodiversità e laboratorio di osservazione.
- Documentare l’evoluzione: scattare, annotare, registrare: il paesaggio è un libro che si scrive da sé, ma che va letto con costanza.

Il valore della non-azione
In un mondo abituato a pensare che “fare” sia sinonimo di “migliorare”, il secondo principio ricorda che non intervenire può essere la forma più profonda di azione.
Lasciare che un’area si ricolonizzi da sola, permettere al vento di portare semi e agli insetti di ridisegnare equilibri, può significare restaurare un ecosistema meglio di qualunque intervento progettato a tavolino.
La cura, qui, assume la forma della presenza consapevole, non del controllo: un atto di fiducia verso i processi naturali, e verso la capacità del luogo di rigenerarsi.
Un campo che insegna
L’esperienza del campo dell’Istrice è un piccolo laboratorio vivente di questi principi.
Il terreno che era stato arato e prosciugato, oggi mostra zone che si rigenerano da sole, fioriture inaspettate, habitat che si ricompongono lentamente.
Il margine — quello che all’inizio sembrava “imperfetto” — si è rivelato un maestro.
In ogni gesto di restauro, in ogni decisione di non intervenire, il paesaggio risponde con una lezione: la natura sa fare da sé, se le si restituisce il tempo e lo spazio per farlo.
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