Manifesto dell’Istrice

Il campo è il mio inizio.


Non è un luogo da possedere, ma un corpo che mi precede e mi accoglie.
Nel suo ritmo lento riconosco la misura di ciò che dura, di ciò che ritorna.
La terra non è superficie: è profondità, memoria, promessa.

Osservo senza desiderio di conquista.
Ogni gesto è un atto di ascolto, ogni immagine una traduzione del respiro del luogo.
Non cerco la bellezza che si mostra, ma quella che resta, che si rinnova senza clamore, come le radici di una pianta perenne.

Imparo a sedimentare l’attenzione.
Nell’intervallo tra un germoglio e il suo frutto, tra una stagione e la successiva, scopro la lingua che mi abita: una lingua fatta di cura, lentezza e relazione.

Guardo il paesaggio come un essere vivente.
Gli restituisco voce, riconosco la sua forza silenziosa.
Il campo è una comunità di presenze intrecciate: vegetali, animali, umane, unite da una trama invisibile di sopravvivenza.

L’Istrice è la mia forma di resistenza al consumo del tempo, delle relazioni, del suolo.
È un luogo che coltiva la perennità, non la permanenza: la capacità di durare mutando, di fiorire nella trasformazione.

Nel suolo – come nell’immagine – cerco ciò che rigenera.
Il resto lo lascio al vento.

Queste immagini documentano le prime fasi del progetto: lo stato iniziale del campo, l’arrivo delle piante pioniere e gli ospiti che hanno scelto L’Istrice, il presidio ecologico. Ogni immagine è una traccia di trasformazione — un piccolo documento del tempo che comincia a tessere la comunità vegetale, animale e relazionale.

Non è abbandonato,
è L’Istrice

Un campo di un ettaro, al confine tra Pianura Padana e Preappennino Emiliano, e un progetto che si propone di trasformare un terreno ex-agricolo, precedentemente utilizzato a monocolture, in un ambiente rigoglioso e diversificato, e con l’ausilio minimo dell’intervento umano.

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